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Africa - Un ricordo indelebile

Il mio pensiero corre velocemente alla sera del 19 gennaio 2002, il mio primo viaggio in Africa.

Il nostro aereo si è appena staccato dalla pista di Malpensa in direzione Parigi per poi volare verso il cuore dell’Africa, a Bangui, nella Repubblica Centrafricana.

Un aereo carico materiale, di sogni, di certezze e di presunzioni, le mie, che verranno infrante di lì a poco.

Il mio viaggio era inizialmente previsto per il novembre precedente, ma un improvviso colpo di stato pochi giorni prima della partenza ci ha costretti a rinviare fino a quando la situazione si fosse stabilizzata fino a un livello di sicurezza accettabile.

Dopo dodici ore mi ritrovo catapultato in un altro mondo, spaesato, traumatizzato dal primo impatto con questa realtà africana.

Mi viene incontro una donna, che mi saluta a braccia aperte, con un sorriso che abbraccia ancora di più, con una gioia che sprizza da quegli occhi che mi appaiono subito familiari, sinceri, profondi. Il suo saluto è più caldo del sole africano. Rimango meravigliato e stupito da tanta confidenza, tipica di due amici che si conoscono da lunga data.

Improvvisamente le mie preoccupazioni di esser finito nel posto sbagliato svaniscono, mi sembra di essere a casa. E’ bastata Lei a darmi certezza e sicurezza.

– “Questa è Suor Beniamina” – mi dice Carla.

– “L’avevo intuito!” – rispondo sicuro.

– “Chiamami pure Zia o Benja” – aggiunge Suor Beniamina, dubitando forse di non essere stata abbastanza chiara nel farmi capire la sua semplicità intensa.

Carla mi aveva parlato di Lei, di Zia Beniamina, di questo suo modo unico di vivere l’Africa e la Missione con gioia ed entusiasmo, senza mai arrendersi, nemmeno nei momenti in cui chiunque avrebbe mollato tutto. Ma son quelle cose che non puoi descrivere a voce, dove non bastano ore di racconti o di testimonianze. Devi viverle per capirle, per sentirle dentro di te, per accorgerti che in pochi istanti l’entusiasmo di questa persona ti è entrato dentro nel cuore e ti ha … rapito!

Ho avuto la fortuna di veder Suor Beniamina all’opera sul campo, nella sua amata Africa, a cui ha dedicato tutta la sua vita, con la sua dedizione profonda ai più deboli, con una vocazione che ti coinvolgeva senza che te ne rendessi conto.

Un giorno ho smesso di montare pannelli solari e sono andato con lei in un campo profughi di pigmei, in quello che oggi, grazie agli sforzi di Suor Beniamima e all’impegno degli Amici per il Centrafrica, è diventato il villaggio di ‘Ngouma.

Come se non fosse bastato il trauma del mio primo impatto con l’Africa povera, nel giro di pochi minuti mi ritrovo in mezzo ad una moltitudine di uomini, donne e bambini che non hanno nulla, nemmeno un vestito da mettersi addosso, con delle immagini che rimarranno stampate per sempre nella mia mente. Quelle immagini che si vedono solo alla CNN, nei reportage dal Terzo Mondo, che ti entrano in casa mentre sei a cena e a cui spesso siamo indifferenti, come se fossero troppo lontane da noi per poterci toccare.

Io mi ci sono trovato dentro a quelle immagini, in mezzo a bambini con la pancia gonfia, con gli occhi scavati nel cranio pieni di mosche, con le braccia e le gambe scheletriche da far paura. Scatto qualche foto per ricordo, poi mi accorgo che quelle foto non potranno mai descrivere le mie sensazioni che sono come un pugno nello stomaco, con un odore nauseabondo di morte, dove nemmeno le lacrime hanno il coraggio di uscirti, dove vorresti solo scappare.

E Lei? Con il suo sorriso e il suo coraggio Suor Beniamina ha una parola buona e una carezza per tutti, dai più grandi ai più piccoli, e con la sua instancabile voglia di fare pronuncia una frase che la indentifica perfettamente: “Bisogna fare qualcosa!”.

Parole che scatenano in Lei un vulcano di idee e di volontà, che nel giro di pochi istanti la portano a prendere iniziative coraggiose per cambiare le cose.

­– “Come fai ad avere entusiasmo in questa miseria? Dove trovi la forza?” - le chiedo.

– “La forza e il coraggio me le da nostro Signore” - risponde in modo così semplice e sincero da lasciarti senza parole.

In ogni luogo porta conforto non solo con una parola buona o una carezza, ma concretamente, con la sua attenzione ai malati, con la sua esperienza che l’ha trasformata da ostetrica a dottore tutto fare, con la sua cura per più deboli.

Nei villaggi africani si trovava il catalogo completo delle malattie più orribili: lebbra, malaria, aids, meningite e altre che sono terribili già solo pronunciandone il nome: dengue, shigellosi, filaria. Suor Beniamina non si tira mai indietro, nulla riesce a fermarla.

– “Ma non hai paura?” – le chiedo vedendola medicare le mani ormai inesistenti di un lebbroso?

– “E di cosa dovrei aver paura? Io sono stata scelta per fare questo lavoro. E’ un dono che mi è stato dato ed è mio dovere metterlo in pratica. In Africa devi avere paura dell’Uomo, non delle malattie” – risponde Lei con un sorriso che, quasi quasi, mi fa rabbia perché non sono capace, nemmeno lontanamente, di comprendere la sua totale dedizione agli altri.

E poi, dopo un giorno interminabile passato nell’inferno, dopo cena, dopo l’ultimo giro tra i malati del suo ospedale di Zomea, missione che Lei ha tirato su dal nulla, si siede fuori, sotto lo splendido cielo africano, quando finalmente il caldo soffocante sembra darti un po’ tregua, come se non avesse fatto abbastanza fa il bilancio della giornata e pianifica quello che deve fare domani.

Le chiedo se tutti i giorni sono come oggi o se ha dei momenti di tregua. Mi risponde raccontandomi di situazioni che ha vissuto, che le sono restate in mente, di quando è stata prigioniera in Congo, degli innumerevoli colpi di stato che hanno devastato la Repubblica Centrafricana, delle volte che le hanno distrutto e portato via tutto, del fatto che una notte di settimana scorsa, giusto qualche giorno prima del nostro arrivo, la missione è stata assalita dai ribelli per derubare quel poco che c’era. E lei si è messa in prima linea a difendere la sua missione, a dare sicurezza alle sue sorelle comboniane, sola difronte a uomini armati.

Racconta queste cose cercando sempre di farle sembrare banali, di poco conto, sminuendo la gravità dei fatti, spesso trovando anche il lato ironico del momento.

– “Ma come fai a ricominciare ogni volta da zero? Come fai a non abbandonare tutto delusa da tutto?” – le chiedo

– “Prego il mio Signore ogni giorno perché sia fatta la Sua volontà. E poi, quando vedi il sorriso di un bambino è una grande ricompensa. Bisogna andare avanti! Il nostro fondatore, Daniele Comboni, diceva che ci vogliono mille vite per la missione. Questa per me è solo la prima, se mi fermo adesso cosa faccio delle altre novecentonovantanove?” – mi risponde con il suo instancabile sorriso che comunica un’immensa gioia interiore e con quegli occhi profondi che hanno visto cose che non posso nemmeno immaginare e che ti danno idea della persona che è Lei.

L’ultima volta che incontro Suor Beniamina è pochi giorni prima della sua dipartita da questo Mondo, dieci anni fa. Vado a trovarla in ospedale, vicino a Verona, afflitta da un male incurabile, che comunque non l’ha mai fermata nel suo dedicarsi ai deboli. Mi accoglie con la sua gioia di sempre, con la sua capacità di accettare e vivere la vita in tutte la sua essenza. Ha ancora progetti per il futuro, anche se è consapevole che non sarà Lei a portarli avanti, ma è sicura che gli Amici per il Centrafrica lo faranno con il suo stesso entusiasmo.

“Che cosa è la santità?”, mi chiedo nella mia ignoranza religiosa. E’ forse dedicare tutta la propria vita agli altri? E’ forse accogliere sempre con gioia tutto quello che la vita ci dona nel bene e nel male? E’ necessario un miracolo per essere santi? Per me il miracolo Suor Beniamina lo compiva ogni giorno, quando ogni mattina, con coraggio, apriva la porta della missione e affrontava il mondo donando tutta se stessa.

Grazie per quello che sei stata e per quello che sarai sempre!